giovedì 15 gennaio 2009

L'impero di Camilla

Il lampione sudava gelo dal profumo metallico. –Chi osa sempre solo è e l’oscurità trova davanti a sè- recitavano alcuni graffi appena accennati sul tubo dal ripieno luminoso. –Sarà...- pensò Camilla tra se inforcando gli occhiali cadenti, il freddo le punzecchiava il naso. Ogni mattina il lungo viale appariva color petrolio mentre due lampioni situati ai lati opposti della strada inzaccheravano l’ambiente come due piccoli atolli innevati. Quel maledetto autobus era sempre in ritardo, e lei continuava a ricontrollare l’orario appeso ogni santo giorno, si premurava ossessivamente di verificare che non ci fossero apostille, apostrofini dalla legenda intricata del tipo valido solo sabato festivo ma non tra il 12/6 e il 15/8 eccetto direzione Prandetti dal 17/3 al 12/4.

Finalmente da lontano due piccoli anelli luminosi rinfrancavano Camilla che ancora una volta ce la faceva ad arrivare per le 5.50 puntuale puntuale all’apertura dei forni. A dirla tutta la sua ansia aveva un’origine molto più ingarbugliata. Da oramai un anno si era accorta che dall’altro lato della strada, sotto il lampione antistante, si fermava sempre un uomo, un tale mal acconciato che vestiva una giacchetta bisunta e che fumava emettendo grandi bolle dai boati silenziosi. Camilla ne era profondamente affascinata, trovava le sue spalle deperite e brinose così attraenti che squadrandolo spesso si mordeva inavvertitamente le soffici labbra screpolate. Ciò che la attraeva di più erano le sue mani gonfie di lavoro, imbottite di una forza sproporzionata per reggere quel’esile filo di tabacco. Camilla se la prendeva soprattutto con il trasporto urbano che costringeva l’uomo ad aspettare sul ciglio opposto -Che rabbia! Se aspettasse qui si potrebbe… chissà! O forse no, magari…giusto per fare amicizia! -

In ogni modo, Camilla aspettava ogni mattina nel suo candido cono e ripeteva il suo piccolo rituale leggendo il lampione e controllando gli orari. Quel giorno il tipo fumante sedeva sul ciglio opposto ammirando col naso all’insù la sua piccola luce artificiale. -In effetti però…- si ripeté Camilla sbirciando le grosse mani–Chi osa sempre solo è e l’oscurità trova davanti a sè- . In attesa di assimilare quel concetto probabilmente gelatosi tra occhi e cervello Camilla continuava a tamburellare il piede sul marciapiede, poi ad un tratto, una scintilla di determinazione infuocò il braciere del suo coraggio. Si decise, e mosse alcuni esili passi verso il confine luminoso ma, appena entrata in contatto col buio, ritornò d’istinto ad abbracciare il suo lampione sudato. Senza aver il tempo di prender fiato, l’ autobus passò cancellandola da quel quadro scolorito.

–Che figura, chissà se mi ha notato. Che razza di stupida, ma cosa volevi ottenere Camilla? Eh? Presentarsi alle 5 di mattina. Ciao sono Camilla che bella giacca che hai? Con uno sconosciuto poi!- pensava la donna tra sé seduta sul sedile tiepido dell’autobus. Durante le mattine seguenti non alzò lo sguardo, neanche per un attimo, era sicura che lui anche a distanza fosse in grado di leggere il suo instabile elettrocardiogramma emotivo. Acquisita un po’ di razionalità, col passare dei giorni si fece forza e riprese i suoi piccoli rituali continuando però a mordersi insistentemente le labbra ad ogni sfuggevole sguardo. –L’oscurità c’è ma forse non è per te- -Sì certo…- pensò Camilla leggendo un altra frase graffiata a pochi centimetri da quella precedente –Ma dove le trovano queste poi-

Forse per una strana combinazione di eventi, forse per gioco, Camilla questa volta decise di prendere il suo lampione sul serio e si sforzò di incastrare quelle parole nella sua vita, in qualche modo, tentando di dargli una forma diciamo, concreta. Ma ogni tentativo fu vano fino a che tutto accade così, in un attimo. Un giorno scese dall’autobus nel primo pomeriggio, in quel momento delle giornata le due piccole isole di luce scomparivano inghiottite dalla marea diurna. Camilla si fermò davanti al lampione grugnendo –Cosa mi vuoi dire?! Che cosa devo fare?!-. La donna vomitò imprecazioni roteando fino ad esplodere in una serie di calci contro il povero palo che cominciò a vibrare, poi prese una pietra e la scagliò con tutta forza, in alto dall’altra parte della strada. Infine, scarica, si diresse ricurva verso casa.

La mattina seguente, Camilla ancora assonnata prese posto come sempre nel suo cono. Sfregandosi un po’ gli occhi illuminati dai riflessi delle lenti, notò qualcosa di diverso. Tutto l’ambiente intorno era nero inchiostro, il lampione dell’amato emetteva qualche scintilla, ma era spento, per la precisione sparso in tanti piccoli cocci taglienti che giacevano sull’asfalto gelato. “Preferisco un po’ di luce” proruppe una voce profonda dall’oscurità. La faccia dell’uomo andò delineandosi a mano a mano che entrava nel fascio luminoso. “Ha visto il lampione? Non mi piace stare solo lì nel buio”. Camilla dapprima non disse nulla, poi noncurante domandò “Non pensavo che qualcuno incominciasse i turni così presto, che autobus prende?” “La 54” “Aspetti ma, deve essersi sbagliato la 54 passa più in giù 200 metri a destra, non se n’è mai accorto?” “Beh…sì” rispose lui. Camilla non nascose un tenue sorriso mentre lui, guardando imbarazzato l’oscurità, continuò ad abbracciarsi per conservare il poco calore in corpo.

martedì 16 dicembre 2008

inchiostro giallo blu

M. aveva tentato più volte di scrivere qualcosa di significativo. Avvolto nella sua coperta, covava in quel tepore cumuli di fantasie che riversava a valanga nel suo computer dai tasti consunti. La luce dello schermo accentuava i rilievi del volto e ne amplificava la fattura creando ombre deformi sul muro color panna. A guardare quel riflesso sembrava, forse non a torto, di scorgere un mostriciattolo avido di completare il suo sogno di conquista. -Fatto! Adesso, vediamo un po'. Invia, concorsi... Quota di partecipazione pagata, conferma. Speriamo bene-.

M. aveva appena finito il suo ultimo racconto e, tutto ringalluzzito, scoppiettava dall'emozione. In cuor suo era certo di aver raggiunto quella sintesi di stile e significato che da tanto ricercava. Spense il computer e guardò la luce dei lampioni fuori dalla finestra. Si impigiamò in quattro e quattr'otto e rintanatosi nel suo lettuccio calduccio si ritrovò subito a sognarsi vincitore di strampalati premi per scrittori. Passavano i giorni, le settimane, M. controllava la posta elettronica assiduamente, ansimava, il cuore batteva forte forte ad ogni nuovo messaggio ricevuto. Poi una mattina, la tragedia. “Siamo spiacenti, ma il suo racconto non ha vinto né il primo, né il secondo, né il terzo premio, né il premio giovane promessa, né il premio speranza per chi non ce l'ha”. M. prese la nuova notizia molto male.

N. era un suo grande amico, aveva imparato a farsi cuscino di fronte agli sbalzi d'umore dell'amico. Qualcosa lo preoccupava: M. era solito esternare il proprio disappunto senza contegno. Pianti, panico, desiderio di paternità... Ma questa volta vi era qualcosa di diverso nel suo comportamento. N. aveva invitato M. a cena per aiutarlo a dimenticare il fattaccio.-Sai che hanno scoperto una cura per il virus GIGI? E' un evento straordinario di cui beneficerà il mondo intero!- esclamò N. facendo tremare piatti e posate-. M., succhiando la sua zuppa di cavoli e patate, bofonchiava incurante qualcosa come: - Sbuf! Sbuf! Che me ne... Sbuf! ...porta-. N. tentava invano di rassicurarlo e di ricucire il povero ego dell'amico, ridotto in pochi stracci sfilacciati. La mattina seguente N. si recò a casa di M. per sincerarsi delle condizioni dello scrittore incompreso. Lo trovò in giardino, con un pala, che scavava una grande buca-M. cosa diavolo stai facendo? Sei fuori di senno?-M. continuava il suo scavo. Senza alzare lo sguardo monologava tra sé: -Me la pagheranno, me la pagheranno, tutti quanti...-

Poco a poco le visite di N. si fecero sempre più rare. M. trascorreva tutto il suo tempo a scavare, dialogando con sassi e vermi nel mezzo di quella grande buca che a causa della pioggia persistente si trasformava ogni giorno in una culla di rancore e fanghiglia. Era talmente profonda ed estesa che ricopriva tutto il giardino. I lavori continuarono fino a che un giorno M. alzò lo sguardo e vide il sole dai contorni argillosi che giudicava con la sua luce il suo profondo lavoro. Si asciugò la fronte, uscì dalle viscere del terreno e salì in auto sgommando.

N. seguiva gli spostamenti dell'amico. Vivendo lì vicino aveva notato che l'affranto scrittore partiva la mattina presto e tornava a notte inoltrata continuando a trafficare attorno a quell'incessante cantiere. Un giorno, non vedendo più grande attività, N. si decise a recarsi di prima mattina a casa di M. Saltò il muro di cinta e lo vide, addormentato su un gran cumulo di ciò che a prima vista sembrava plastica colorata. N. si avvicinò con passo felpato per non far scricchiolare l'erba incastonata in gocce di rugiada. Notò da subito che non si trattava di plastica, bensì di una montagna di penne che ricopriva la buca, un cumulo che rifletteva un frullato di colori dalle sfumature plastiche che si animava con la rotazione della luce solare.

N. si chinò e vide penne di ogni tipo: a forma di fiore blu e giallo, cubiche, ad inchiostro multiplo, longilinee con una seghettatura nel mezzo, a scatto, morbide con cappuccio colorato, a forma di squalo con indosso maschera e tubo... Mentre N. procedeva nel suo lavoro di catalogazione pennifera, M. vegliatosi in piedi sulla montagna già tagliava con la sua ombra la visuale dell'amico. Poi con tono scortese disse: -Che ci fai qui?- N. lasciò cadere quei capolavori tascabili e rispose: -Che ci faccio qui? Che ci faccio qui?!?! Che cosa stai facendo tu piuttosto... qualcosa si è incastrato in quel giocattolo che hai sopra le spalle! Che cosa vuoi farne di tutte queste penne?-

Riporto un po' di equilibrio - rispose subito M., saltando giù dalla cima con un balzo.
N. lo guardava aspettando maggiori spiegazioni. -Gli scrittori si sentono defraudati, inutili. Non ricevono abbastanza attenzioni. Perché? Non sono capaci, non sono dotati? No... Hanno sfiga, ineluttabile sfiga!!- M. aggirava il suo discorso come un branco di lupi che attira la preda in una trappola a lungo meditata. N. ascoltava, mentre la luce riflessa sulla montagnola lanciava raggi gialloblu alla sua guancia, riscaldandola. -Ora basta, ORA BASTA! Ho raccolto quante più penne possibili, così nessuno potrà più scrivere, almeno per un po'. Non è giusto cullarsi in un universo di false speranze, nessuno vuole sapere quello che hai dentro e tanto meno leggerlo. Tentare... Quanto tempo buttato al vento! Stop all'espressione! Farà bene a tutti quanti sentirne la mancanza... Li salverò io, quelli simili a me-.

N. abbassò lo sguardo e si morse una mano quasi per spezzare il suo grido di disapprovazione. -Capisco...che egoista che sei! Meriteresti di scioglierti nella tua stessa montagna di plastica e vendetta. Sei stato proprio bravo! Ci vuole un vero artista per camuffare il proprio risentimento con un mantello di mal interpretata giustizia. Invece di accusare tutti, chiediti perché è così importante essere letti, essere scoperti. Scusa, ma non credo che tu ne sia capace, in fondo, fino ad ora sei stato troppo intento a scavare...la buca sbagliata. Me ne vado!-

Le sue parole rimasero incastrate nelle cannette colorate delle penne frantumandosi in mille suoni diversi, ma mantenendo lo stesso tono e significato che ormai solo M., impietrito, poteva udire. N. se se andò accennando una corsa.


Molto tempo dopo, N. tornava a casa dal lavoro. L'oscurità già ricopriva il giovane quartiere residenziale in espansione. Vedeva il suo respiro farsi vapore nell'atmosfera invernale. Prima di varcare la soglia di casa passava spesso vicino a quella di M.. La buca era vuota, il giardino incolto e l'intera struttura abbandonata ormai da diversi anni. Dopo quella mattina, non aveva avuto più notizie né di M., né delle sue penne. Tutto ciò che rimaneva di quell'amicizia era dell'erba alta e qualche tonnellata di terra risecchita. Arrivato sulla soglia di casa controllò la casella metallica della posta, e vi trovò una lettera dalla busta rigonfia, senza mittente. L'aprì e al suo interno vi era una biro dalla forma semplice e liscia al tatto. La lettera non portava né firma, né spiegazioni. Quella sera infagottato nel letto, N. spense la luce, scansando con gli occhi le ombre colorate dalle luci dei lampioni nel vicolo sottostante, posò lo sguardo sulla penna che giaceva sul comodino. Prima di addormentarsi si immaginò M. in qualche paese povero e soleggiato a distribuire pennini ai bisognosi, poi lo dipinse chiuso in una casa solitaria a consumare tutte le stilografiche scrivendo e riscrivendo la sua redenzione...In fondo non importava molto dove M. fosse., N. infatti, già dormiva stringendo quel dono sottile tra le mani.




sabato 18 ottobre 2008

tra semafori rossi nel traffico del tardo pomeriggio

Si intravedevano pochi raggi di sole tra i rami degli alberi spezzati. La panchina sulla quale sedeva si inclinava piano a ogni sussulto quasi lamentandosi a gran voce del peso eccessivo. Ashartin non era mai stato una persona molto profonda; considerando che le persone profonde di solito perdono la maggior parte del loro tempo ad approfondire la profondità di sé stessi, lui non accettava proprio l’idea di dedicare del tempo, del preziosissimo tempo a qualcosa che non garantiva nessuna certezza.

Il panorama che lo circondava era alquanto desolante: macchine bruciate, bidoni rovesciati a terra, sullo sfondo vi erano scintille che sprizzavano da un lampione in frantumi, come fontane di luce riempivano la strada per poi spegnersi in uno scoppiettio che faceva solletico a vedersi. Aspettava su quella panchina quando a un tratto sentì avvicinarsi un rumore profondo, alternato da pause acute. Il rumore cresceva, poi calava e poi cresceva di nuovo in un circolo sonoro.-E’ un diesel!- penso Ashartin tra sé. Da lontano si vedeva una sagoma blu, un grosso parallelepipedo semovente dai contorni poco dolci..... insomma, un autobus che si fermò proprio di fronte al giovane disorientato. In alto, lo schermo della destinazione riportava semplicemente -Voglio te!-.

La porta si aprì, Ashartin sussultò, scrutò l’interno del mezzo e il suo sguardo cadde subito su una strana figura incastrata nell’angolo di guida. -Ma tu sei un pollo!- esclamò. -E allora?- rispose il conducente con altrettanto stupore alzando il tono della voce. -Parla lui senza piume, sali o no? Sono due uova per il centro, tre per la collina- Il pollo con cappello e giacchetta portava una cartellino, o meglio, un cartellone -CHIEDI A ME!-. Ashartin confuso cominciò a frugare subito nella saccoccia che portava a tracolla: dentro vi erano esattamente tre uova. Le consegnò, le porte si chiusero e disinserita l’inutile freccia lampeggiante l’autobus ripartì rombando.

Ashartin non ci capiva niente: dov’era? Come era arrivato lì? E soprattutto, chi aveva messo le uova nella sua borsa? Si trovava su un autobus di una qualche città a lui sconosciuta, con un pollo come conducente. -Senta ma...scusi...sa come si chiama questo posto?-chiese all’autista senza ricevere risposta. Poi pensò tra sé: -Mi sembra di esserci già stato, eppure...non mi ricordo niente...-. Ad un tratto il pollo proruppe -Sai, dovresti sorridere un po’ di più tu! Sei lì, con quel muso, tutto serioso... vuoi che ti racconti una barzelletta?-. Ashartin fece un cenno col capo.

-Allora, ci sono due polli, uno è tirchio e ricco, l’altro povero, ma appena ha un centesimo lo sperpera subito. Stanno discutendo e si insultano con frasi del tipo: -Tu hai le alette corte!-, -Tu invece hai le coscette bucate!-... quando a un tratto arriva Dio e dice al pollo sperperone: -Tu hai speso e io ti salvo!- E l’altro dice: -Ma come? E io che sono stato attento, ho risparmiato, ho lavorato e non mi sono fatto corrompere dal denaro? Non mi salvi?-. -Appunto- dice Dio -Visto che tu hai soldi e lui no, uccido te e con i tuoi quattrini mi compro le verdure per farti al forno!-. -Guahahahahaha!- proruppe il pollo. La sua risata aveva il suono dell’acqua che straripa riducendo una diga in frantumi, era piuttosto coinvolgente.

Ashartin accennò un sorriso, poi la sottile ironia della barzelletta si fece strada tra le pieghe del suo umorismo fino a ché non sfociò in una bella risata. -E’ proprio un peccato vederla così!- esclamò l’autista pennuto -Sai una volta era proprio bella, tutto, le macchine, le strade, i semafori funzionavano. La mattina mi svegliavo, salito in groppa a questo bestione, giravo la chiave e facevo il mio solito giro. Su e giù per la collina, sempre puntuale!-

Ashartin ascoltava il pollo e intanto curiosava fuori dal finestrino, rannicchiato su quel sedile sfasciato e puzzolente. Il sole era ancora oscurato da nuvole intermittenti, il paesaggio sempre lo stesso. Si intravedevano finestre dalle imposte penzolanti, vestiti lasciati a marcire appesi a corde che univano file parallele di condomini anneriti dal tempo. No, non era la decadenza che lo spaventava, era l’assenza di vita -Perché le cose erano andate così male?- pensava Ashartin tra sé tormentandosi. Questo gli dava una strana sensazione di rimorso concentrata nello stomaco, provava nausea. Il paesaggio, la città muoveva sensazioni lontane, sepolte tra le viscere del suo vissuto. Gli ricordava come crescendo si era dimenticato di qualcosa. Pieno di impegni, di momenti vissuti troppo in fretta! Aveva lasciato morire piano piano quell’ Ashartin così capace di dipingere creativamente l’incertezza delle situazioni.

-Senti tu- esclamò il pollo cambiando marcia -Non ci siamo presentati...- -Ashartin de Yerzevan- rispose quell’altro sorpreso aspettandosi di dover rispondere- -Ah sei del sud vero?- -A dire la verità no- rispose il ragazzo -Ci credi alle seconde opportunità?- disse il pollo, cambiando completamente discorso. -In che senso?- rispose Ashartin pensieroso -Parlo della possibilità di rimettere tutto in discussione- controbattè l’autitsta -Sì, perchè no...cioè non lo so..non ci ho mai pensato- -Prendi me- continuò il pollo -ho sempre pensato che avrei vissuto in città, guidando questo autobus fermata dopo fermata. Invece...tutto è finito così presto, troppo presto- Nella testa di Ashartin frullavano innumerevoli domande ma le parole rimanevano incastrate fra i denti e inghiottite a fatica giù nello stomaco come grosse pillole amare. Era incerto e si sentiva in colpa per ciò che era successo al pollo, alla sua città...intanto il vivace pennuto continuava a blaterare -Stavo leggendo su www.alzalacresta.po che ci sono delle offerte da paura nella zona di Haskin giù a sud...immaginati..Ah che libertà! Che freschezza! è come ripulire un muro decorato con carta da parati ammuffita e puzzolente. No ragazzo, non guarderò più la strada da questo finestrino appannato di finte speranze!-. Il ragazzo si fece forza e domandò con voce incerta – Perche’ non te ne vai subito? Non vedi? Non c’è niente e nessuno in questo maledetto posto per chilometri...- Il pollo abbassò lo sguardo e rispose -Ci sei tu. Comunque hai ragione, questo è il mio ultimo viaggio- Arshatin non rispose ma provò rimorso per ciò che aveva appena detto senza saperne il motivo.

L’autobus intanto procedeva lento, così inclinato faticava a raggiungere la meta. Il pollo scalò più volte le marce fino a che gridò forte “Guhuhuhuhuguaha, siamo arrivati, bello mio!”. La freccia lampeggiava, l’enorme macchina era ferma, le porte aperte; il motore, esausto, prendeva fiato bucando con fragorosi scoppi il silenzio tra i due. Ashartin si alzò e con la testa bassa raggiunse la soglia, mentre fuori cominciava a soffiare una leggera brezza, alzò lo sguardo e vide un`insieme di case distrutte, muri cadenti e macchine carbonizzate distendersi fino all’incerta linea dell’orizzonte. -Allora, scendi o ti fermi alla prossima?- domando` il pollo, Ashartin sussultò. Era indeciso, stava lì, fermo, strizzava i suoi pensieri quasi fossero panni intrisi di vita, mentre le gocce che si creavano cadendo al suolo secernevano uno strano odore di speranza. Sorpassata la soglia della porta non c’era niente che lo attraeva di quel mondo andato in frantumi; si rese conto che il suo mondo, il suo vero mondo era un autobus con un pollo come conducente.

Con voce tremante e occhi umidi esclamò -Scendo alla prossima!-. Il pollo chiuse la porta e cominciò subito a gridare guardandolo dritto in volto: -Uno, due, liberaa!!- esplodendo infine in una nuvola di piume. Ashartin sentì subito una forte scossa al petto, aprì gli occhi ancora pieni di lacrime immobili e vide un cerchio sopra di lui composto da diverse facce di uomini pensierosi. Dal fondo una voce sommessa diceva: -Battito regolare-. Disteso e immobile sentiva il sangue penetrare tra gli anfratti più sensibili del suo corpo e scorgeva a malapena attorno le case, le auto, le persone... Tutto era ritornato normale. Poco lontano, la sua macchina accartocciata abbracciava un semaforo ormai fuori uso.

Ruotò le palle degli occhi, inghiottì un po’ di sangue e finalmente capì. La città distrutta era ,in fondo, la sua grande potenza creativa mai sfruttata nel corso di una vita persa ad agguantare piccole sicurezze quotidiane. Il pollo, l’ultimo pezzettino della sua grande risorsa creativa era riuscito a sopravvivere e a salvarlo. Che potenza che aveva dentro! E che disastro che aveva combinato massacrando il suo grande mondo! Pur trafitto da dolori lancinanti che lo scuotevano a intermittenza, riuscì, nel profondo, a ridere di gusto per la nuova opportunità concessagli e ad assaporare quel momento in tutta la sua amarezza. L’ambulanza intanto già sfrecciava a gran velocità tra semafori rossi nel traffico del tardo pomeriggio.

domenica 1 giugno 2008

momenti di gloria

Mette a posto le sue carte, fa ordine sulla scrivania. Spegne il computer “Maledetti aggiornamenti, proprio adesso...”. Aspetta diversi minuti, con impazienza fa tutte quelle cose che non si fanno mai tranne quando si aspetta che qualcos'altro non dipendente da te venga fatto. Sistemati anche gli aggiornamenti si pulisce la fronte con la mano, e via di corsa, rimbocca la giacca e le marce della macchina. Prima, seconda, terza e poi di nuovo seconda perché bisogna risparmiare benzina. Niente traffico, nessun ostacolo sulla via di casa. Parcheggia la macchina, “Sono a casa, mi lavo e scappo” esclama con impazienza “Com'è andata al lavoro? Ma dove vai?” domanda la moglie. Non risponde accenna qualcosa. Si lava con cura intanto l'emozione sale dalle punte dei piedi fino alla radice di capelli ormai così radi. “Cinquant'anni e mai una volta che si riesca...” pensa con un pizzico di malinconia “Ma stasera forse...” Si mette la tutta, bacia la moglie con impazienza, apre il cofano dell'auto e con sospetto nasconde qualcosa di lungo e smontabile, riparte. Parcheggia al bar prescelto, incontra i suoi amici. “Ci siamo, avete portato tutto?”. Non c'è da preoccuparsi sapeva di potersi fidare, intanto pensa “Abbiamo fatto il possibile, non ci resta che aspettare..”. Entrano nel bar in fila indiana.

Si toglie la divisa, si guarda allo specchio, la pancia cresce, mentre il portafoglio cala. In fondo anche le diete senza successo costano. “Questa caserma cade proprio a pezzi, non ne posso più” pensa. Nasconde alcuni vestiti in un sacchetto di plastica. Chiude l'armadietto, va di fretta, saluta tutti con un cenno. Chiude il portone e lascia le chiavi del camion cisterna nel solito posto. Esce e aspetta l'amico impaziente “Sempre in ritardo, neanche oggi e sì che ne abbiamo parlato, porca..”. Accende una sigaretta, poi un altra, poi non ne ha più quindi cammina su e giù per far circolare la nicotina più velocemente. E' arrivato, fortunatamente ha portato il necessario in un contenitore rettangolare nero. Risparmia le solite polemiche, saluta apre la macchina e fa accomodare l'amico. Poi si mette i vestiti del sacchetto urtando specchietto, volante e cambiando marcia. “Sono pronto” si mette alla guida e partono. Si fermano, parcheggiano e entrano nel bar scelto ormai da mesi. Si siedono, era da tanto che aspettavano questo momento. Si guardano negli occhi, c'è una forte intesa sono consapevoli che tutto andrà per il verso giusto, si percepisce voglia di rivincita. Sotto voce gli dice “Ci siamo..”. L'amico apre la scatola rettangolare.

Finisce di scrivere, chiude il computer. Il bar è lontano, si mette in macchina, è sempre il ritardo. Come da copione imbottigliato in tangenziale “Proprio oggi..” pensa tra se. Tre chiamate perse sul cellulare e un messaggio “Ti stiamo aspettando, vedi di non arrivare tardi proprio oggi..”. Vista la situazione mette un fazzoletto bianco sul finestrino, suona il clacson, in fondo è un'emergenza! Prende la corsia di emergenza e rischia la patente. Arriva sgommando la bar, in ritardo, dopo aver pagato la multa della polizia autostradale. Comunque vada al piano della serata bisognerà sottrarre centocinquanta euro. Non trova parcheggio, “Il marciapiede serve proprio a questo” pensa. Entra nel bar ansimante, i suoi amici lo aspettano seduti con aria di sfida. Lo aiutano a scaricare un grosso lenzuolo, arrotolato alla buona che da lontano sembra sporco di rosso. Rientrano nel bar. Evita di scusarsi fa il superiore, d'altronde non c'è motivo di sprecare fiato è quasi ora...

Apre il libretto, controlla i suoi voti “studio ancora cinque minuti e poi basta..”. Studia un minuto ed è subito in strada a camminare cercando disperatamente un bar dove rifugiarsi nella speranza di trovare qualcuno con un po' di speranza. Apre la porta del bar e vede un sacco di gente. Tutti sembrano aspettare un accenno per scatenarsi. Si sente un fischio, viene dalla televisione. Alla destra si vede un uomo piuttosto rotondo e comico con maglietta e calzoncini della nazionale vicino a un amico che estrae da un contenitore rettangolare una tromba che subito spara in aria l'inno nazionale. In fondo un gruppo di giovani cinquantenni capeggiati da uno sbandieratore ordinano birre e se la ridono di cuore. Vicino un gruppo di tifosi urlanti sfoggiano uno striscione da stadio con scritte rosso brillante “Bacco, tabacco e nazionale!”. Si siede da solo, ma non importa si sente in compagnia e dimentica gli studi. Sorride, intanto alla televisione una voce ripete “L'Italia calcia il primo pallone degli Europei di calcio 2008..”


francesco

lunedì 12 maggio 2008

il cammino di!

C'era una volta un giovane ragazzo di nome Marco che volle mettersi alla ricerca di un luogo sperduto tra le ruvide rocce carniche. Un luogo dove la vita assume forma di pura luce e dove la speranza trova alloggio tra i muschi dei freschi alberi senza età. Quel luogo già chiamato dagli antichi "Fornelli di Sopra" viene ricordato ora come "Forni di Sopra"...

Invano il ventriteis nonno di Marco
Von Giovannis de Tulmieccis lo aveva cercato rimanendo però disperso tra le nevi e i ghiacci (alcuni credono che sia ancora vivo ma che la natura lo abbia trasformato in un orso giallo)

Camminando sperduto Marco incontrò nei boschi un altro ragazzo molto audace e determinato che condivideva lo stesso sogno di ritrovare quel paradiso perduto, lui si chiamava Gabriele...

Questo giovane moretto seguiva le tracce del suo ventunis nonno
Von Francescov de Risanchis. Anche lui invano aveva tentato di ritrovare "Forni di Sopra" ma non si avevano avute più notizie....

Inutile dire che i due divennero subito amici e compagni di viaggio. Promisero di sacrificare anche la vita (di quell'altro) per scovare il magico sentiero nascosto per "Forni di Sopra".

Dopo diversi giorni di cammino i due avevano già affrontato molte insidie e tempeste...

...ma con l'intuito di uno..


...e la simpatia di quell'altro...

..cominciarono a intravedere qualche segno di speranza!

Fino a che, dietro un albero caduto, apparve davanti a loro la tanto ambita valle di Forni di Sopra...

..to be continued..
francesco

P.S.
Back stage...