martedì 25 settembre 2007

Nuovo Mondo

L ‘acqua era fredda e scorreva rigida tra le barriere di cemento. Dal ponte le cose sembravano così piccole e allo stesso tempo così flessibili e maneggiabili. Era uno scenario interattivo infatti con le mani si potevano disporre gli oggetti e intercambiarli per rendere quel piovigginoso pomeriggio d’ottobre un caldo tramonto primaverile. Atramento era un giovane sulla trentina e in quel preciso momento lanciava sassi dal ponte sul quel fiume industriale e in verità non riusciva a sentire se effettivamente toccassero l’acqua o rimanessero sospesi a mezz’ aria. Guardava, col vento negli occhi, le ciminiere rosse e bianche che facevano a gara di fumo tra tutte quelle scritte murales sugli argini del fiume. Aveva tempo e voglia di cambiare le cose per questo gli piacevano questi luoghi così di frontiera. Si chiedeva spesso se quei marciapiedi così inutili fossero stati effettivamente calpestati da qualche persona o se fossero solo il risultato di un ineccepibile ed insensata pianificazione urbano industriale. Aveva invitato Giannamentra e le aveva promesso un regalo proprio speciale. “Atramento senti me lo fai vedere questo regalo per favore?” “Giannamentra tranquilla, chiudi gli occhi e dammi la mano” Atramento le prese la mano salì con lei sul cornicione del ponte, aprì le braccia e piano piano i due chiusero gli occhi. Giannamentra un po’ turbata si chiedeva se Atramento fosse veramente sano di mente; poi piano piano sbirciò il mondo e lanciò un grido sordo. Le ciminiere erano belle grassocce e giocavano a poker con carte di carbone sbronzandosi di petrolio e insultandosi per un bluff non riuscito. Le scritte sui muri si prendevano gioco l’una dell’altra “ Guarda sei proprio una tipo vecchio stampo e poi sono un po’ di giorni che non hai proprio un bel colore” diceva la Z alla F la quale gli rispondeva per le rime “Senti non avrò un bel colore ma almeno io non sono razzista!”. I cestini tutti belli snelli giocavano a pallavolo lanciandosi palloni di carta mentre la rete ovvero la ringhiera sul marciapiede si lamentava di ricoprire quel ruolo. In realtà il sindacato delle strisce pedonali si era unito a quello dei pali delle stesse ringhiere per protestare contro la mancata verniciatura annuale. Le strisce avevano dichiarato l’ennesima personale guerra al popolo macchina che sfrecciava sulla tangenziale lanciando insulti e sfottendo le povere strisce che rimanevano macchiate per sempre. Le lavatrici, i pneumatici e i termosifoni ai lati del fiume intanto si godevano la loro piccola casa di riposo “ Sereni orizzonti” in riva al fiume. “Eh che belli questi ultimi giorni della mia vita senza centrifughe e ammorbidenti” “Hai ragione pensa me tutto il giorno a correre e correre guarda che vecchia ho tutta la gomma liscia”. L’asfalto intanto se la rideva e lanciava minacce verso il letto del fiume ridendo dell’incapacità del pneumatico di fargli ancora del male e si richiamava a qualche giustizia divina. La dea catrame dell’alto si chiedeva perché aveva creato un asfalto così burbero che non capiva lo scopo della sua esperienza sulla strada. In cielo le rondini si mettevano maschere contro l’amianto e stavano finalmente pensando di prendersi un appartamento in centro col riscaldamento invece di fare sempre quella stupida migrazione che non serviva a nessuno. Erano sempre i soliti vecchi capi che insistevano ma, ormai, il germe dell’insurrezione era presente. Intanto l’acqua scorreva lenta e procedeva nel suo lavoro quotidiano di fornire ai diversi clienti merci di seconda qualità. L’acqua era la più saggia, era il broker della situazione e il suo mercato funzionava così; uno chiedeva una cosa e lei col tempo te la forniva ripulita e senza problemi con la legge o con gli sbirri. Le zanzare proliferavano a milioni, miliardi ormai le autorità zanzarifere volevano imporre una legge sul controllo delle nascite. In ogni modo il partito dei falchi aveva rifiutato la proposta in parlamento e si era deciso per 1000000000 nascite a covata e niente di più. Le rane dai loro covi sott’acqua si leccavano le zampe e preparavano la loro attrezzatura sub per un massacro pianificato. I raggi del sole penetravano tra i turbini dell’acqua marrone mentre il sole, quello vero, raccontava proverbi alle nuvole tipo “nuvole a pecorelle pioggia a catinelle”. Quindi tra lane e prati riusciva, al distrarsi delle nuvole, a lanciare qualche raggio e si sentiva troppo un illuminato.. Intanto dalle nuvole cadevano gocce che prossime alla morte urlavano, piangevano o creavano teorie filosofiche “ Senti goccia io credo che cadendo ritroveremo il nostro spirito liquido e ci uniremo alla terra in un estasi di amore e lacrime” “Sì parla tu, io intanto mi faccio un’assicurazione sulla pioggia, guarda che io ho una famiglia da mantenere e poi alla fine non moriremo mai sono anni che stiamo cadendo”. Ma alla fine, dopo quel lungo viaggio, le stesse gocce caddero sulla fronte di Giannamentra che adesso chiudeva gli occhi mentre Atramento la baciava con passione. Quando li riaprì vide Atramento al suo fianco in piedi che lanciava sassi sospesi a mezz’aria. Le nuvole, il sole, le ciminiere erano ritornate normali “Buon compleanno amore, volevo solo regalarti il mio mondo”.

francesco

domenica 23 settembre 2007

Viaggio a Kuntor

Zhaid non era mai stata una persona tutta d’un pezzo. Durante la guerra aveva tradito, corrotto e trovato sempre gli stratagemmi più subdoli per trovare una via d’uscita. La guerra lo aveva logorato nel corpo ma non nell’anima. Zhaid era uno di quei guerrieri vecchio stampo tutta scimitarra e niente fronzoli. Quando c’era da dare un taglio netto ad una situazione era sempre pronto, infatti, erano state numerose le sue strombettanti ritirate. Portava il suo spadone nuovo di pacca ancorato alla schiena e ora con la sua moto diesel sfrecciava nel deserto assieme a pochi sopravissuti. La sconfitta era stata pesante e ormai le ultime tracce di speranza cadevano come carburante evaporato sulla sabbia. “Io torno indietro, se devo morire preferisco farlo combattendo sotto questo avido sole che mi ha cresciuto e ha reso mora la mia pelle!” annunciò Zhaid trionfante girando la moto e dileguandosi in direzione opposta ai suoi poco amati compagni. In realtà Zhaid non aveva nessuna voglia di trovare la morte combattendo avrebbe preferito essere il più umile degli schiavi. No, lui voleva trovare un luogo chiamato Kuntor. Qualche luna prima, viaggiando nel deserto, incontrò al primo distributore di benzina un giovane che dati i pochi clienti aveva una lingua piuttosto biforcuta. Il giovane gli raccontò della mitica città e delle sue splendide ricchezze: più di mille donne, molta benzina e…la felicità . Di fatto, a Kuntor vi erano oasi, laghi, fiumi, torrenti di benzina un toccasana per la sua moto. Zhaid si fece dare le coordinate dal giovane che quasi in silenzio disse “Un giorno durante una fuga gira la tua moto e viaggia retto. Quando sentirai il vento soffiare a oriente sarai a Kuntor”. Così Zhaid sentiva già il sale sulla pelle erosa dal sole e dalle mille battaglie non combattute. Sfrecciava con la sua moto al calar del sole e il suo turbante blu e arancione fluttuava nell’aria quasi fosse un groviglio di stoffa vivo che ballava tra le onde del vento. Proseguiva retto quando vide da lontano un folto gruppo di donne che muovendosi all’unisono formavano un quadrato perfetto. Le donne camminavano in obliquo e portavano tutte un capello cilindrico avvolto in un manto giallo verde che oltre alla testa ricopriva tutto il loro corpo. Zhaid fermò la sua moto e anche la donne si fermarono decidendosi a passare la notte insieme. Bisogna ammettere che queste donne non erano di molte parole anzi di nessuna parola. Lavoravano certo, avevano allestito il campo per la notte e acceso i fuochi che ora scoppiettavano però non cercavano nessun contatto con Zhaid. Il povero guerriero terribilmente annoiato giocava a solitario con le dune fino a che una donna si avvicinò dicendo“ Abbiamo deciso di donarti una moka e qualche kilo di caffe della migliore qualità”. Cosi il giorno seguente Zhaid partì con la sua moto pieno di caffè, disorientato, disegnando audaci traiettorie sulla sabbia ancora fresca. Zhaid viaggiava e si chiedeva perché mai avrebbe dovuto credere ad un benzinaio del deserto. La sera si faceva sempre un caffè fino che, una notte, la moka brontolando per il liquido appena fuoriuscito disse “ Insomma Zhaid ma quando arriviamo? Io ho bisogno di cambiare la guarnizione e guarda sono tutta arrugginita, mi tratti proprio male bello mio…ma vedrai un giorno o l’altro io ti lascio di punto in bianco. Ti scrivo un biglietto e me ne vado come nei film però di quelli senza un bel finale” Zhaid non rispondeva, la sua moka aveva preso l’abitudine di fargli le prediche e di annoiarlo con i suoi discorsi. Nonostante tutto aveva incominciato ad apprezzare quel inutile compagnia e dopo tutto il caffè alla sera era l’ unica consolazione al suo fallimento quotidiano. “ Zhaid” diceva la moka con parole tostate “Cosa credi di ottenere arrivando a Kuntor? Donne, benzina? Queste cose le puoi avere anche qui ora. Tu cerchi Kuntor perché così hai un motivo per accendere la tua moto la mattina.”. Così parlava l’amica moka sbattendo e ribattendo quel coperchio metallico. All’ennesima notte la moka si mise a raccontare barzellette “ Hey Zhaid sai cosa dice una moka ad un'altra moka che gli chiede che fine abbia fatto l’amico moka? Credo sia diventato frate cappuccino!” Zhaid prima si stupì, poi rise e rise così forte che mosse tutte le nuvole colorate dalla luna. Incominciò a rotolare sulla sabbia sue giù per le dune piangendo con le mani sulla pancia. Quando tornò in se raccolse la moka che già russava vapore e rimboccandole le coperte la guardò, aveva trovato un amica. “Senti moka ma cosa si prova a fare il caffè?” domandò Zhaid in un caldo pomeriggio “Ma guarda credo sia una sensazione esplosiva prima senti tutto un bollore che proviene dal basso. Poi piano piano cominci a ad avere allucinazioni tipo cialde dorate che danzano calpestando campi di the e alla fine in batter di mani sei di nuovo in questo mondo. Insomma i letterati chiamano questa esperienza ascetismo ultraromatico” Zhaid stava per rispondere all’amica quando tutt’un tratto vide in lontananza mille cavalli, alabarde, bandiere, trombette pronte a lanciarsi contro quel eroe così codardo. “Amica moka credo che sia veramente la fine, sono in riserva e non ce la faremo.” Zhaid ingranò la marcia e partì in direzione opposta. La moka però aveva già tagliato le corde che la ancoravano alla moto e ormai sola gridava “Zhaid tu non sei un guerriero sei un motociclista quindi non preoccuparti combatterò per te, ti voglio bene!” e così dicendo la moka si di fece una carica di Travazza qualità oro. Poi tutt’un tratto cominciò a scaldarsi e a diventare grande sempre più grande, enorme. Il nemico intanto lanciava freccie, alabarde, la colpiva ma la moka tra mille sofferenze eruttava galloni su galloni di caffè che sbaragliavano l’esercito nemico e mettevano in fuga i pochi sopravissuti. Zhaid intanto sfrecciava verso la salvezza, dava gas al motore per non pensare poi però attese qualche attimo guardando il sole al tramonto mentre la marmitta aspettava scoppiettando. Chiuse gli occhi girò la moto e tornò a salvare la sua amica; si era finalmente deciso a combattere. Quando arrivò vide soldati che deliravano narrando storie di tsunami di caffè e moke giganti che sputavano vapore ardente. Zhaid cercò tra le alabarde e turbanti. Vide la sua amica moka piccola, indifesa, spezzata a metà che sprizzava caffè da diversi buchi nella corazza metallica. La prese tra le braccia mentre il vento soffiava tenace a oriente. Zhaid maledisse la sua vita e il suo inutile coraggio, la sua amica era morta sola proprio adesso che sarebbe stato disposto a sacrificare la sua vita per lei. Così adagiò la moka sulla sabbia, sfoderò la sua scimitarra e camminò verso l’esercito nemico ormai in ritirata. La moka tra atroci sofferenze riuscendo a malapena ad aprire il coperchio guardò Zhaid camminare, raccolse le ultime forze residue e disse “Arrivederci guerriero e benvenuto a Kuntor”.

francesco

lunedì 17 settembre 2007

Lacrime di clorofilla

Margherita era una margherita. Sul ciglio di una statale dove passavano ogni giorno diverse automobili si erano trovate a vivere la loro modesta vita due margherite. Una si chiamava per l’appunto Margherita l’altra però si chiamava Violetta. Da che mondo è mondo ogni Margherita si chiama Margherita invece no, sua mamma Margherita aveva deciso di rompere quella stupida regola e di chiamarla Violetta. Insomma Margherita e Violetta passavano le loro giornate come due regine, durante il giorno, prendevano il sole che era così idratante per i loro petali. Avevano avuto la fortuna di nascere vicino ad un Drive-in così che si beccavano sempre tutti i film migliori. La notte Margherita e Violetta scambiandosi i Pop Corn caduti dalle auto parcheggiate si godevano i loro film e la loro meravigliosa esistenza circondate da un profumo di teneri baci e caramello. “Margherita senti io ho un problema” “Dimmi Violetta che c’è?” “Odio il mio nome non lo capisco e credo che sia proprio per questo che Carlone il Rosellone non mi fila. Insomma guarda che pezzo di gambo che non ho! Per non parlare poi dei miei petali così tondi. Dopo tutto sono una Margherita tutta d’un pezzo sono a posto con la fotosintesi e anche se ho una certa età la mia corteccia non ha neanche una ruga, guarda!” “Violetta lo so, ma forse ti chiami Violetta per qualche altra ragione e alla fine non credo che Carlone il Rosellone sia proprio il tipo per te, guardalo e così… Rosso. Secondo me beve.” E così continuavano Violetta e Margherita nei loro discorsi persi tra lo sfrecciare delle macchine e le pistole di Will Sbith nel selvaggio West. Un giorno, dopo la consueta fotosintesi mattutina Margherita si fece un sonnellino. Al risveglio…la tragedia, al posto di Violetta c’era una triste buca ancora ricolma delle radici dell’amica tanto amata. Margherita pianse, pianse e pianse. Non dormì, non capiva cos’era successo, chi avrebbe potuto volere la morte della sua migliore amica? Alla fine erano in buoni rapporti con il clan delle Api, con quello delle Vespe non avevano molti contatti…mah, forse le zanzare? Magari quelle lì, nuove, a strisce bianche così scorbutiche che parlavano una lingua orientale. No, non poteva essere perché se la sarebbero dovuta prendere con la povera Violetta? Basta piangere, pensò Margherita, è ora di darsi da fare. Il povero fiore solitario con i pochi risparmi accumulati vendendo polline si comprò un bel vaso Ming, un paio di occhiali da sole e una bella dose di fertilizzante per il suo viaggio. Sapeva già dove andare, saltellando con fatica si sarebbe recata dal più saggio, Ernesto il piccione, lui sicuramente avrebbe saputo trovare Violetta. “Ernesto dimmi dove posso trovare Violetta, è morta? L’ho sognata tante volte fatta a pezzi, tranciata e affettata dalla grande mietitrice di cui parlano le scritture” “Tranquilla Margherita, Violetta è ancora viva o almeno per un po’. Ti porterò da lei sta proprio qui a un batter d’ali, l’ ho vista arrivare l’altro giorno”. Così Margherita saltò in groppa a Ernesto e volarono insieme a salvare l’amica. Il sole e l’aria battevano forte sui petali del fiore sconsolato. Margherita si fece l’ultimo panino al fertilizzante e poi chiuse tutti i suoi pistilli, sentì il vento, sognò anche lei di poter volare e cercò di trasmettere tutto il suo amore a Violetta “ Sto arrivando amica, non ti lascio sola” Al suo risveglio da lontano già si profilava una grande costruzione bianca dal cui interno Margherita poteva udire i lamenti di tanti suoi simili. “Portami lì Ernesto, sento che Violetta è li dentro”. Ernesto fece scivolare Margherita da un buco nel rivestimento in plastica di quella serra di morte e disperazione. Margherita fece due salti e si ritrovò davanti allo spettacolo più agghiacciante della sua vita, camminava tra file perfettamente ordinate di milioni e milioni di margherite, tutte prigioniere. Come avrebbe fatto a ritrovare Violetta? Tutte le sue simili continuavano a chiamarla a toccarla, l’ambiente era soffocante e la tristezza stava invadendo il cuore del povero fiore. Margherita, disperata vide un tavolo là in alto e capì. Si arrampicò e grazie alle sue foglie sfibrate ma ancora così flessibili arrivò in cima. Come un messia vide sotto di lei tutte quelle piccole margherite che la guardavano silenti, aspettando un gesto, un movimento, insomma, la libertà. Recuperò tutta l’anidride carbonica possibile e emise un urlo profondo “Violettaaaaaaaa”. Tutte le Margherite si voltarono in unica direzione sapevano che tra di loro esisteva un'unica Violetta. Margherita la vide. Violetta senza più petali, tutta marrone incominciò a piangere, a sentirsi libera, amava Margherita e intanto, scorrevano lacrime di clorofilla.

francesco

giovedì 13 settembre 2007

Tre

In una notte tempestosa tra lampi tonanti, in un angolo buio tra rocce finte di un parco di una grande città imprecisata nascevano tre cani. Per destino o per sorte il giorno dopo, all’incalzare della luce e degli amanti del Cavernello mattutino, i quattro si separarono. La loro mamma, triste, di quel momento non ricorda altro che i camion della polizia municipale dileguarsi nel pesante traffico cittadino.

Il primo di loro fu spedito, rapato e vaccinato per giungere tra maree e mezze lune in America del Sud. Il primo periodo era stato dei migliori, non gli mancava niente cibo, acqua, vestiti, tre passeggiate mattutine pomeridiane e quella fisioterapica per la circolazione la notte. Era bello essere cani e adesso aveva anche un nome Giovanni Paolo in onore al Papa, da quelle parti queste cose avevano un valore profondo. Insomma anche i suoi padroni che sembravano essergli fedelissimi un giorno si annoiarono e le passeggiate da 19 divennero 9 e da nove divennero che il cane non aveva bisogno di uscire perché era troppo viziato. Di lì a pochi giorni Giovanni Paolo si trovò solo, sconsolato in mezzo alla strada. Non riusciva a recuperare niente da mangiare, aspettava solo che i semafori si facessero verdi per attraversare l’ennesima strada verso la disperazione. Tutto gli sembrava la genesi di un continuo fallimento. Non ce la faceva più, la sua ultima speranza erano sempre i ristoranti cinesi che mai lo discriminavano e sempre gli riservavano qualche wanton. Così non poteva andare avanti. Aveva sentito di alcuni lavori ben retribuiti, ma che avevano poco di legale. Parlò con alcuni “bastardini” di quartiere, e in dieci minuti tutto era sistemato. Doveva fare da palo per una rapina a zampa armata, obiettivo un carico d’ossa di mucca fresche di mattatoio, insomma merce che scottava. Il lavoro era semplice e la paga era buona. Il caso volle che conclusasi la rapina I “bastardini” si papparono tutta la merce e lasciarono il povero Giovanni Paolo ancora una volta all’asciutto. Quella notte mentre consumava il suo solito wanton Giovanni Paolo giurò che non poteva andare avanti così, quei cagnacci l’avrebbero pagata. Il giorno dopo recuperò due tra i suoi amici più robusti e insoddisfatti. Fecero irruzione, graffi, botte, ululati, ossa rotte di cane e di mucca. Giovanni Paolo ce l’aveva fatta, si era ripreso ciò che gli spettava. Quella notte dal tetto dell’edifico appena conquistato sorvegliava i due mastini di guardia all’entrata. Era una notte buia e tempestosa lui rimaneva in piedi, la pioggia cadeva e l’acqua scorreva a rivoli tra le fibre dei suoi muscoli confondendosi col sangue delle ferite. Giovanni Paolo alle pendici della città mirava con sguardo fisso tutte quelle piccole luci, non esistevano più confini avrebbe potuto arrivare dovunque.

In Nord America invece le cose andavano diversamente, le pistole sparavano e i cani col sangue negli occhi e nei nervi delle gambe correvano e bruciavano la sabbia. Le voci degli uomini si facevano sempre più forti e le banconote volavano fomentando grandi imperi finanziari e smantellando i più audaci sogni di investimento. Era il regno delle scomesse. Pio era il più forte, il più veloce non aveva mai perso e si che il suo padrone l’aveva comprato per due soldi al mercato dei polli. Ma si sa che nel mondo della competizione le cose spesso lievitano rapide ma con insuccesso. Così che un giorno Pio si mise in testa che non gli importava molto delle corse ma che voleva fare il pittore. Quanto lo affascinavano quei grandi disegni sui muri delle città, faceva sempre la pipì solo sulle opere che apprezzava veramente. Era un cane educato, nel tempo libero con i suoi pennelli e pannelli colorava la realtà e costruiva i suoi sogni. In ogni modo la sua vena espressionista poco si confaceva con le aspirazioni dei suoi padroni e soprattutto di coloro che su di lui avevano puntato la tredicesima. Così che Pio dovette utilizzare la sua rapida corsa per scappare il più veloce possibile dal suo passato da atleta verso un incerto futuro da pittore inespresso. Si alzava la mattina, faceva un po’ di yoga sotto il cavalcavia dell’autostrada (le auto che sfrecciavano erano così concilianti con la meditazione) cercava di essere selettivo tra i rifiuti che mangiava, solo muesli, pane di grano saraceno e pasta integrale. Le cose però non andavano molto bene, il suo stile non era apprezzato era ritenuto troppo “d’azzardo” insomma i detentori del lume canino lo avevano umiliato più volte. D’altronde era una cane senza famiglia e senza passato. Però era proprio questa la sua forza, lui dipingeva la città per quello che era con i suoi gatti sacrificati sulle autostrade i suoi cuccioli minorenni che senza speranza si buttavano facendosi di veleni per topi e le sue cagne che uscivano dal loro diciassettesimo matrimonio con altrettanti cuccioli al quadrato da accudire. Continuò solo nella sua lotta finché un giorno tra un TIR e un altro decise, in un profondo tunnel, di realizzare il suo primo murales indipendente. Ci mise 6 mesi e sei notti ma alla fine fu un’opera d’arte. Nei giorni seguenti spesso camminava per il tunnel e annusava che numerosi cani avevano deciso di fare la pipì da quelle parti, ce l’aveva fatta la sua opera era un successo. Una notte, solo, dall’ apice del cavalcavia, guardava la città tormentata dalla tempesta. Era bello vedere come tante piccole luci simbolo di tante vite così slegate tra loro riuscissero a ricreare un senso di unione che resisteva vivo alla tormenta. Pio decise che avrebbe continuato a creare e ricreare il suo mondo fino alla fine.

In Centro America la terra tremava, le case costruite con autorizzazioni sospette dimostravano la propria fragilità cadendo di fronte alla potenza del mondo. Un disastro. Passò la notte, e la disperazione già colmava ogni singolo anfratto, ogni singolo buco creatosi, ogni singola crepa. Benedettino aprì gli occhi, si diede una scossa e si alzò. Dov’erano i muri? Benedettino aveva sempre vissuto in famiglia. Una famiglia povera che però aveva fatto di tutto per lui, aveva sempre avuto la sua razione di crocchette al formaggio anche nei periodi di miseria nera. Col tempo gli affari erano andati bene e Benedettino adesso disponeva di una casa propria e già si stava parlando di una possibile mastina con la quale invecchiare felicemente. Mentre ora dal giorno alla notte non esisteva più niente di niente solo polvere e l’azzurro del cielo. Sconsolato Benedettino vagava per le strade, non capiva, tutti correvano di qua e di là per poi tornare di qua e ripartire di là. I suoi migliori amici cani anche loro erano rimasti soli, lui d’altro canto si sentiva impotente. Cosa poteva fare, la sua unica famiglia non c’era più, lui ricordava solo l’odore di quel movimento imperturbabile della terra. La prima notte soffrì la fame, la sete ma soprattutto la solitudine finchè tutto non si illuminò di rosso e di vita. Erano uomini che con arnesi, rumori e artifizi estraevano persone da quel groviglio di cemento e pietra. C’era ancora speranza, il cane non aveva ancora capito che si poteva fare molto e anche di più. Benedettino così corse, corse sempre più forte e nella corsa attirava altri compagni che annusavano la sua passione, il suo amore, la sua volontà di dimostrare che razza di cane era. Ritornò a casa e incominciò a raspare, annusare, demolire finche non senti un odore famigliare. Arrivarono i soccorsi e tra un sospiro di liberazione e un altro Benedettino stava salvando tutto e tutti, era inarrestabile. Gli altri cani lo guardavano con rispetto quasi aspettando un suo gesto per muoversi o congedarsi. Quella notte solo, Benedettino guardava, dal tetto di una chiesa pericolante, la tempesta che si imbatteva impietosa sui ruderi di quella città e di quella vita così lontana. La pioggia e il vento battevano sul suo muso, sul suo corpo stanco. Vide piccoli fuochi riparati accendersi dappertutto, si alzò in piedi, sospirò, e si sentì parte di quell’incredibile spettacolo di vita.

francesco



domenica 9 settembre 2007

Eccoci!

Ad una foto recente replico con una di qualche anno fa, giusto per ricordarci come eravamo da teenagers, e come abbiamo chiaramente guadagnato in fascino con l'età! Ora chi eventualmente vorrà, almeno di tanto in tanto, passare a leggere questo blog, sarà sicuramente gente che ci conosce più o meno bene (nei primi tempi, poi prevediamo di diventar famosi, chiaramente) perciò più che presentarmi vorrei spiegare lo spirito della cosa.
Vuole essere una specie di diario aperto, all'inizio solo per me e fra, ma col tempo noi speriamo per tutti quelli che volessero contribuire. Non ci sono argomenti prefissati e/o linee guida, a parte il fatto che le decidiamo noi che postiamo oO (ma l'idea sarebbe di dare la possibilità di postare a tutti quelli che ne avessero voglia, col tempo).
Bene detto ciò mi rimetto a studiare l'infinita bellezza delle reti di calcolatori...


...sperando di avere più tempo a breve per un post come si deve:)

mi presento

Dopo tante vicissitudini, ripensamenti ancora prima dei pensamenti, consultazioni insomma dopo tutto di tutto è stato aperto questo blog. si chiama divieto di precedenza. il nome chiaramente molto figo è stato scelto da me francesco dopo un prolungato dibattito con quello più brutto nella foto. insomma divieto di precedenza per chi non può fermarsi mai e ignorante vedendo un TIR arrivare non può che sperare che sia carico di polli.

Il Nano Adriano e la lavatrice

A Stefania con affetto

C’era un volta un nano di nome Adriano che si svegliava ogni mattina chiedendosi perché era nano. Prendere il tram equivaleva a scalare una montagna, per farsi la barba e vedersi allo specchio doveva saltare e saltare sempre più in alto. Ma non solo, la natura si era proprio accanita. Con gli anni invece di crescere non si sa come mai decresceva e decresceva. Sempre più piccolo solo in cucina la notte piangeva triste fino a che un giorno sentì una vocina che lo chiamava Adrianooo… Adrianoooo. Cercava e cercava ma non riusciva a capire da dove venisse quel rumore. Dopo un po’ capì che proveniva da dentro la lavatrice, la voce continuava a chiamarlo. Lui curioso, stanco e triste com’era decise di entrare e scoprì un mondo favoloso dove tutto appariva per quello che era pulito e profumato. Col tempo si era fatto un sacco di amici nella lavatrice la signora Mutanda, le gemelle Maglietta e lo zio Maglione che sempre gli faceva le predicozze. Comunque a parte tutto era gente simpatica e Adriano tra una centrifuga e l’altra si sentiva sempre più a casa. Tanto è vero che quando era al lavoro pensava solo a suoi nuovi amici a quello splendido profumo di mughetto e alla freschezza delle onde di spuma che si infrangevano sulla sua faccia . Insomma a lavorare proprio non ci riusciva così che decise di parlare di questo nuovo mondo a Alcide un suo collega. Alcide era alto, bello, muscoloso, impiegato del mese, dell’anno…sprizzava fascino da tutti i pori e a parte per il nome si poteva definire sotto tutti i punti di vista un essere perfetto. Alcide però quando tornava a casa si sentiva insoddisfatto insomma non capiva perché non riusciva a essere promosso direttore marketing? Perché Ilona non lo chiamava mai? In fin dei conti a lui non mancava niente. Ma quando vedeva Adriano tutte le preoccupazioni si dileguavano lui era così alto così potente di fronte a quella formichina indifesa. In ogni modo, Alcide frequentava Adriano un po’ per pena un po’ per necessità e quindi si recò a casa di Adriano per scoprire esattamente di che “nuovo mondo” stesse parlando. “Ciao Alcide sei arrivato, che bello! stavo giusto finendo di mettere l’ammorbidente nella lavatrice, vedrai che esperienza” Alcide un po’ spaesato un po’ curioso era incerto se scappare via urlando o seguire Adriano che già si era tuffando a bomba nella lavatrice. Alla fine Alcide decise di entrare ma una volta messo il piede si accorse che non ci riusciva! era troppo alto, troppo pieno. Intanto Adriano lo chiamava “Vieni Alcide, vieni, qua è troppo bello” le sue parole però si facevano sempre più fine sempre più profonde. E mentre Alcide tornava a casa tutto inzuppato d’acqua e sapone, Adriano parlava con lo zio Maglione, le sorelle Maglietta e la signora Mutanda “ Adesso capisci che bello è essere nani?”. Adriano non rispondeva ma felice, piangeva, tra pantaloncini e lacrime il suo viaggio era cominciato.

Francesco